giovedì, agosto 31, 2006

Socialismo? Parliamo invece di capitalismo

LA DISCUSSIONE
Dopo 30 anni di neoliberismo, adesso una "sterzata" a sinistra
di ALAIN TOURAINE
Socialismo è una parola confusa, usata dalle persone più diverse per esprimere le opinioni più varie. Lasciamolo dunque da parte. In compenso, parlare contro il capitalismo non soltanto è più che sensato, ma è anche molto più di attualità di quanto la maggior parte delle persone non creda. Ciò che definisce il capitalismo è l'eliminazione dei controlli sociali, politici o di altro genere che limitano gli attori economici. Quando sono liberi, vale a dire non controllati, questi attori esercitano un autentico potere sulle altre istituzioni, che devono sempre, per parte loro, tener conto degli interessi dei dirigenti dell'economia. Il riferimento a questo potere fa parte del concetto stesso di capitalismo. Questa libertà, questa stessa onnipotenza dei dirigenti dell'economia è una componente necessaria della modernizzazione. Non ci sono mai stati grandi sviluppi economici senza una fase di capitalismo che possiamo addirittura definire "selvaggio". La Gran Bretagna e poi gli Stati Uniti ne sono stati i grandi esempi. Oggi è la Cina a essere il Paese più capitalistico del mondo. Ma la modernizzazione esige anche che dopo una fase di libertà estrema delle forze economiche dominanti arrivi una fase opposta dove compaiono nuovi interventi pubblici promossi da sindacati e partiti che vogliono soprattutto una redistribuzione del reddito. Questa alternanza rappresenta la formula di base dello sviluppo economico. Non c'è sviluppo senza capitalismo e senza anticapitalismo. Ma molti preferiscono, alla successione di queste due fasi, un sistema misto permanente che combini accumulazione e redistribuzione. È questo sovente il caso degli europei e, in particolare, dei tedeschi, che hanno appena votato per un'economia aperta e competitiva, ma anche per il mantenimento della Sozialmarktwirtschaft (economia sociale di mercato), che è una delle forme principali di quello che Delors ha definito "il modello sociale europeo.
Il problema reale di fronte a cui ci troviamo è di scegliere, non tra capitalismo e socialismo, ma tra il sistema dell'alternanza e quello della combinazione permanente di un'economia aperta e di una forte azione di redistribuzione. Gli avversari dell'alternanza temono che questo sistema rafforzi le tensioni e i conflitti sociali. I nemici dei sistemi misti temono che la redistribuzione non vada a beneficio dei poveri ma di determinati settori delle classi medie, in particolare nel settore pubblico. I sostenitori del capitalismo, da parte loro, accusano i loro avversari di entrambi i campi di spingere talmente in là il Welfare State da strozzare la crescita e creare un deficit di bilancio che può essere colmato solo facendo crescere il debito pubblico, quindi attraverso un prelievo anticipato sul reddito della generazione successiva. Quale posizione bisogna adottare oggi? La risposta deve tener conto della nostra situazione storica. Noi viviamo, dall'inizio degli anni 70, in una fase che viene definita neoliberista, e che ha preso il posto dell'economia "amministrata" che dominava la maggior parte del mondo all'indomani della Seconda guerra mondiale. Questo successo del capitalismo è stato amplificato dalla globalizzazione che ha accresciuto la libertà delle imprese, soprattutto di quelle finanziarie, rispetto agli Stati e soprattutto ai sindacati, che in molti Paesi stanno perdendo di importanza. Oggi, l'opinione pubblica tende a chiedere un riequilibrio in favore dei salariati e delle spese sociali. È sbigottita dalle notizie degli scandali che sono avvenuti nelle grandi imprese, e dalla pioggia d'oro che ricevono molti manager. I lavoratori si indignano per il fatto che le loro imprese vengano delocalizzate anche quando sono in attivo e realizzano profitti. I movimenti no global, meglio definibili come altermondialisti, organizzano forum e grandi raduni in tutte le parti del mondo. Ad attenuare questa pressione gioca il fatto che gli eventi che dominano l'attualità non sono di natura economica, ma religiosa e militare. Malgrado questi ostacoli esiste, in particolare in Europa, un'evoluzione dell'opinione pubblica a favore di nuovi interventi dello Stato, e soprattutto contro la creazione di un'Europa alla Thatcher. L'opinione pubblica non vuole che la riforma necessaria del servizio sanitario e delle pensioni si traduca in una limitazione delle prestazioni. Formulata in questi termini, la risposta alla domanda che abbiamo posto appare evidente: l'opinione pubblica si aspetta dai dirigenti che mettano dei limiti all'onnipotenza dei mercati e delle imprese. Chiede una "sterzata" a sinistra. Ma una simile risposta non può bastare, perché non dice come, sotto la pressione di quali forze, si possa ottenere un cambiamento di direzione. I sistemi di previdenza sociale, creati all'indomani dell'ultima guerra, sono stati introdotti su iniziativa dei sindacati, e per proteggere soprattutto i lavoratori contro i rischi che li minacciano: incidenti, disoccupazione, malattia, vecchiaia. Chi può interpretare oggi quel ruolo motore che svolsero i sindacati mezzo secolo fa? Chi può dirigere una lotta per un nuovo sistema di protezione sociale che non riguardi soltanto i lavoratori, che protegga tutti contro nuovi rischi e nuove disuguaglianze: dipendenza senile, malattie mentali, conflitti tra minoranze, conseguenze della delocalizzazione, disuguaglianza di possibilità alla scuola, ecc. Una simile pressione, che i partiti e i sindacati sono incapaci di esercitare, può essere esercitata da movimenti di base, associazioni, ong, in parole povere da quella che viene definita la società civile. Ma oggi non assistiamo a un rafforzamento di questo tipo di azioni di base. Stanno anzi perdendo forza in certi settori. Quantomeno nel caso italiano, è al governo che bisogna guardare. Malgrado la sua risicata vittoria elettorale, gode già di una forte riserva di sostegno nell'opinione pubblica, e questo sostegno aumenta. È probabilmente una tendenza generale nel mondo attuale, questa di limitare il sistema neoliberista e di incaricare il potere politico di difendere meglio la popolazione non privilegiata. Dopo trent'anni di supremazia nel dopoguerra, l'economia amministrata è stata sostituita dal neoliberismo. Trent'anni sono passati. Ma non è il momento di far pendere la bilancia nell'altra direzione? (Traduzione di Fabio Galimberti) (31 agosto 2006)

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mercoledì, agosto 30, 2006

Che cosa vuol dire definirsi socialisti

POLITICA A SINISTRA

di JOHN LLOYD IL PARTITO

Il partito dei socialisti europei ha un motto: "Socialisti e fieri d'esserlo!". Può anche essere che ne siano fieri, ma definirsi socialisti è fare un torto alla lingua. Se "socialista" vuol dire qualcosa, infatti, il Pse non può continuare a definirsi tale. Si tratta di altra cosa, di qualcosa di ragionevolmente diverso da un partito di destra, ma non socialista. Sarebbe auspicabile che la politica europea lo capisse. Si prendano in considerazione le situazioni dei principali partiti della sinistra in Europa. Al potere da più tempo di qualunque altro è il Partito Laburista britannico, e nessuno dei suoi leader - tanto meno Tony Blair - lo definirebbe socialista; di tanto in tanto egli arriva a parlare di socialdemocrazia. I Socialdemocratici tedeschi, facenti parte della coalizione guidata dalla cristiano-democratica Angela Merkel, non sono in grado di concludere molto di per sé, tranne - come al momento - determinare un impasse nel processo politico interno. Perfino i socialisti spagnoli - la vittoria dei quali l'anno scorso è sopraggiunta del tutto imprevista, ma che da allora sono stati in grado di consolidare il loro potere in modo sbalorditivo sotto la leadership di Josè Zapatero - più che in una riforma economica in senso socialista, sono impegnati nella liberalizzazione della società. In Svezia i socialdemocratici sono un partito quasi permanentemente al governo, e sono in quella condizione perché hanno assunto una posizione sempre più centrista. Nei Paesi Bassi un partito laburista non al potere è alla ricerca di nuove posizioni principalmente in tema di immigrazione in un Paese nel quale si è andata gradualmente rafforzando l'opposizione all'arrivo di altri immigrati e nel quale si sta assumendo un atteggiamento molto più rigido nei confronti dell'Islam radicale. In Francia i socialisti subiscono ancora le conseguenze della loro drammatica sconfitta del 2002 e della loro profonda spaccatura in relazione all'Europa, mentre la candidata favorita alla presidenza, la popolare Segolene Royale, sta a poco a poco virando verso posizioni sempre più centriste - si potrebbe quasi chiamarle di destra - e proprio queste la rendono così popolare.
In Italia, dopo un periodo turbolento - che per molti aspetti potremmo definire vergognoso - di governo della destra, è andata al potere la sinistra e l'Unione delle sinistre ha già iniziato a fare quello che il governo di destra non ha fatto: liberalizzare l'economia. Si tratta di qualcosa di necessario, che non si può dire appartenga alla politica della sinistra. Al tempo stesso, la sinistra si è presa l'arduo compito di unire i principali partiti che la compongono e questo deve alimentare un dibattito su ciò che la sinistra incarna. Tale operazione assomiglierà al dibattito che ha dato vita al New Labour all'inizio degli anni Novanta, anche se avrà luogo in circostanze ancora più complesse. Tutti i partiti della sinistra europea, di tradizioni quanto mai diverse e che devono far fronte a problemi nazionali quanto mai disparati, sono simili per taluni aspetti fondamentali. Non credono più - o almeno non agiscono più in base alla convinzione - che provvedimenti socialisti in campo economico sosterranno la crescita e nemmeno, su un periodo più lungo, l'impiego. Sono alle prese con una reazione violenta, comune a tutta Europa, nei confronti dell'immigrazione, e con la paura per l'Islam radicale, per contrastare le quali devono mettere a punto precise metodologie politiche. Infine, vedono il loro elettorato tradizionale, la classe lavoratrice organizzata in sindacati, continuare a ridursi sempre più. Negli ex stati comunisti, la vita dopo il comunismo si è rivelata assai dura per i partiti democratici di sinistra che hanno dovuto combattere per conquistare potere politico. In Europa tra i partiti di sinistra e quelli di destra esiste - o può esistere - una differenza di pratiche e di principi: il Pse si esprime al meglio nel perseguire un modello sociale europeo, che conterà su un'alta imposizione fiscale per supportare un welfare state relativamente generoso, buoni servizi sanitari, un'educazione pubblica e un'alta spesa per le infrastrutture pubbliche. Questa è la socialdemocrazia, ma è stata, più o meno, altresì la prassi seguita da molti dei partiti di centrodestra in Europa (ma non nel Regno Unito dagli anni Settanta in poi). Un accordo de facto tra centrosinistra e centrodestra sulla conservazione di un welfare state generoso e interventista non è sparito, anzi è così forte che un governo guidato da Silvio Berlusconi - che si definiva uno che avrebbe affrancato l'economia italiana dalle sue catene corporative - ha fatto davvero poco per cambiarne la compagine di fondo. Che cosa attenderci, di conseguenza, allorché eleggiamo un governo di sinistra? Non più una trasformazione economica; non più un automatico approccio liberale alle questioni sociali e a quelle correlate all'immigrazione; non più, neppure, un sostegno ai lavoratori. Ci aspettiamo piuttosto un approccio maggiormente sociale; un atteggiamento maggiormente liberale nei confronti delle questioni sociali e individuali; un'enfasi maggiore sull'integrità; una maggiore volontà di promulgare leggi rispettose dei diritti delle donne. Tutte queste differenze sono importanti: possono voler dire un cambiamento in meglio nei diritti e nelle vite delle persone. Ma si tratta, nondimeno, di differenze relative, perché dai governi di destra non ci aspettiamo che siano contrari a queste cose, quanto meno non in modo esagerato e drastico. Esistono, è ovvio, ragioni precise per le quali i partiti non possono repentinamente cambiare i concetti nei quali credono, anche se non agiscono in base ad essi già da tempo. C'è la tradizione - spesso una tradizione di lotta, talvolta di oppressione, che non può essere accantonata alla leggera. Forse è perché il Labour Party britannico non è mai stato oggetto di repressione da parte delle forze di una destra totalitaria - come in Germania, Italia e Spagna - che esso è stato capace di cambiare così radicalmente e apertamente come ha fatto. Ci sono i membri di partito, molti dei quali restano aggrappati all'idea che il socialismo può prevalere. E c'è infine l'opposizione della destra che tende - come del resto tutte le opposizioni - a costringerli a caratterizzarsi come rivali della destra, obbligandoli di conseguenza a rimanere attaccati al nome di socialisti. Una delle ragioni migliori è che il socialismo - il socialismo democratico - ha ottenuto tanti buoni risultati nel secolo o poco più dacché esiste. Le sue due degenerazioni totalitarie - il nazionalsocialismo e il comunismo - non possono di per sé inficiare la forza grazie alla quale il socialismo progressista, di importanza secondaria prima della seconda guerra mondiale, da allora è di importanza primaria. Le pressioni popolari per una società più equa sono state espresse dai partiti democratici socialisti e sostenute al governo. Laddove nella seconda metà del secolo scorso sono rimasti in carica regimi autoritari - come in Spagna, Grecia e Portogallo - i socialisti vi si sono opposti e dopo la loro caduta, una volta al governo, hanno fatto molto per porre rimedio ai danni inferti alle rispettive società. Hanno contribuito a dare dignità e sicurezza ai lavoratori; hanno dato voce ai valori della tolleranza e del liberalismo nelle questioni sociali; e a livello internazionale si sarebbero ritrovati schierati per la pace e la riconciliazione. In effetti, il fatto stesso che il centrodestra non possa più mettere seriamente in discussione questi risultati, è un riconoscimento al loro successo. Per questo successo, però, si sono trasformati di continuo. L'essenza del centrosinistra è la sua flessibilità, che i suoi oppositori chiamano opportunismo, ma che di fatto è una ponderata agnizione dei cambiamenti socio-economici. In questa fase della storia europea, il socialismo - se con questa parola si indica un insieme di misure economiche e sociali, più che una memoria storica - non ha più significato: se fa appello ai militanti più anziani, non da più la carica ai giovani; se evoca la visione di un grande passato, ipoteca il futuro. Tuttavia esiste ancora un ambito di politica progressista del quale è erede la sinistra. È la politica che ricorre a una varietà di mezzi, compresi i meccanismi di mercato, per far sì che i servizi forniti alla società - come la sanità, l'educazione, le pensioni - siano efficienti e al contempo adeguatamente finanziati. La liberalizzazione dell'economia, del genere di quella che sta al momento perseguendo l'Unione di sinistra, scatenerà sempre la collera delle categorie che hanno ricavato beneficio dal regime di monopolio, ma laddove la liberalizzazione stimola la caduta dei prezzi dei servizi e dei prodotti, come spesso accade, allora arrecherà beneficio a una più vasta fetta dell'elettorato. La sinistra è stata propensa a essere liberale nelle tematiche sociali e ancora può esserlo. Come forza laica, essa fornisce spazio all'espressione artistica e personale che preferisce la partecipazione attiva alla passività. Può esprimere un ottimismo sociale che incoraggia l'impegno comune a migliorare l'ambiente, ad assistere le persone più vulnerabili e a portare aiuto a quella vasta parte di mondo tuttora sprofondata nell'indigenza. Può benissimo esprimere opposizione alla tirannia in altri Paesi e indicare - anche adesso che il progetto di liberare l'Iraq si impantana - una strada migliore per togliere dall'oppressione i popoli tuttora gravati da un regime totalitario. Più di ogni altra cosa, la sinistra ha la capacità di dare una visione a una società che ancora esige valori in cui credere. Questa visione deve essere pluralista, lasciare spazi e possibilità di evoluzione a fedi e principi che non sono necessariamente quelli della sinistra. Ma deve anche avere una propria integrità, quella della solidarietà, dell'apertura a dialogare, della volontà a trovare compromessi. Deve continuare la sua lotta per una democrazia in senso più ampio, non contro la dittatura - come adesso, quanto meno in Europa - ma contro l'apatia e la frammentazione della società. Tutto ciò fa parte della sua eredità e potrebbe essere parte del suo futuro. Creare un nuovo partito a partire da quelli esistenti - come adesso ha occasione di fare la sinistra italiana - potrebbe voler dire ridefinire e dare nuovo vigore a una politica progressista per questo secolo. A livello europeo, potrebbe offrire ai partiti europei della sinistra una base a partire dalla quale proporre la modernizzazione delle loro rispettive società. Se il Pse non può più dire "Socialisti e fieri di esserlo!", può essere tuttavia davvero fiero di quello che potrebbe diventare: una forza a favore della democrazia, della solidarietà popolare e dell'internazionalizzazione della libertà. (Traduzione di Anna Bissanti) (22 agosto 2006)

Il socialismo è morto ma la sinistra no

POLITICA A SINISTRA

LA DISCUSSIONE. "L'idea morta nell'89, ma i valori sopravvivonoNon è di destra dare risposte efficaci alla sfida del terrorismo" .

Il socialismo è morto ma la sinistra no
di ANTHONY GIDDENS
Il socialismo è morto. La data precisa del decesso è nota - il 1989 - ma già da tempo la sua salute era malferma. Per tutta la durata della sua storia il termine stesso di "socialismo" è stato conteso e rivendicato da gruppi politici d'ogni sorta, dai comunisti agli anticomunisti. La storia della sinistra è costellata di infinite dispute sul suo significato. In passato, la principale linea di demarcazione passava tra la sinistra rivoluzionaria e quella riformista. La prima non credeva nella possibilità di una trasformazione della società attraverso i metodi parlamentari. In tempi relativamente recenti, il libro di Ralph Miliband Socialismo parlamentare è stato considerato un testo chiave, largamente adottato dalle università in molte parti del mondo. Secondo le tesi di Miliband, una società socialista non avrebbe potuto nascere attraverso una vittoria elettorale, ma solo per vie extraparlamentari, dato che i socialisti dovevano trasformare lo Stato in quanto tale. Altri esponenti della linea rivoluzionaria, di tradizione sia leninista che trotzkista, mantenevano però un atteggiamento meno categorico di quello di Ralph Miliband nei confronti della "democrazia borghese". Per converso, e a partire dall'opera di Eduard Bernstein, il socialismo riformista si era proposto di conseguire il cambiamento sociale passando per il parlamento e per la democrazia elettorale. Quasi tutte le attuali formazioni di centro-sinistra hanno origine da figure fondatrici della stessa area. Una delle maggiori ironie della storia è il fatto che il socialismo rivoluzionario, determinato a trasformare profondamente il mondo e apparentemente impegnato in quest'opera per mezzo secolo, è scomparso quasi senza lasciare traccia.
Ormai continua ad esistere solo in regimi che hanno dimostrato di non avere un futuro, come quello cubano, o sopravvive come una flebile eco in paesi quali la Cina o il Vietnam. La stessa idea di un superamento del capitalismo attraverso una rivoluzione politica laica è quasi del tutto scomparsa. La sinistra estrema di oggi si definisce solo in termini di contrapposizione - a volte "anti-capitalista", ma più spesso "no global". Se si eccettua l'Islam radicale, i rivoluzionari in politica ormai non esistono più. Perché l'idea centrale che ha fatto da propulsore al socialismo rivoluzionario, la nozione alla base della definizione stessa del socialismo - l'idea cioè che un'economia controllata e rispondente ai bisogni umani possa sostituirsi ai meccanismi dei prezzi e del profitto - una volta messa alla prova, è fallita dovunque. Era un'idea sbagliata. Il socialismo riformista ha creduto in un'economia mista. Ha ritenuto possibile imbrigliare le irrazionalità del capitalismo riservando allo Stato un ruolo parziale nella vita economica. I "settori chiave" dell'economia - quali i trasporti, le comunicazioni, l'industria siderurgica, il carbone e l'energia elettrica - dovevano rimanere sotto il controllo dello Stato. Dopo la seconda guerra mondiale, per vari decenni in Occidente questo "compromesso" era sembrato in grado di funzionare: non però grazie ai meriti del socialismo di per sé, bensì per quelli della teoria economica formulata da un liberale, John Maynard Keynes. Lo Stato ha potuto così esercitare sull'economia un controllo generale regolando la domanda, mentre il welfare forniva una rete di sicurezza quando le cose non andavano per il verso giusto. Oggi la domanda chiave è se anche questo tipo di socialismo sia morto. La mia risposta è un chiaro sì: non vi sono eccezioni alla netta, inequivoca constatazione con cui ho iniziato quest'articolo. Il più delle volte, lo stato ha dimostrato la sua inadeguatezza nella conduzione diretta delle imprese. D'altra parte, la gestione della domanda in senso keynesiano ormai non è più efficace, e può anzi diventare controproducente nel contesto di un mercato globale. Cosa rimane dopo la fine del socialismo? O in altri termini, cosa resta della sinistra? (NdT: in inglese la domanda è un bisticcio: what is left of the left?) Ricordo le interminabili discussioni su questi temi ai convegni degli anni '90. Le risposte (almeno a mio modo di vedere) sono oggi più chiare di allora. La sinistra è sopravvissuta alla fine del socialismo. Esiste una chiara linea di discendenza dal socialismo riformista agli attuali partiti di centro-sinistra, ma in termini di valori assai più che politici. La sinistra sostiene una serie di valori quali l'egualitarismo, la solidarietà, la tutela dei più vulnerabili, così come la convinzione che l'azione collettiva sia necessaria all'efficace perseguimento di questi obiettivi. Il concetto di "azione collettiva" è riferito non solo al ruolo dello Stato, ma anche a quello di altri organismi della società civile. Tuttavia oggi la sinistra non può più definirsi semplicemente negli stessi termini del socialismo d'un tempo, come la via per limitare i danni inflitti dai mercati alla vita sociale. Se è vero che il capitalismo ha tuttora bisogno di regole, oggi il compito dei governi è quello di favorire un miglior funzionamento dei mercati, di espandere il loro ruolo, piuttosto che ridurlo. Non ha senso contestare come antioperaia la politica di liberalizzazione del mercato del lavoro, che con ogni ragione il nuovo governo italiano sta tentando di portare avanti. L'attuale compartimentazione del mercato del lavoro in Italia non contribuisce minimamente a promuovere la causa della giustizia sociale, ma rappresenta al contrario uno dei fattori di aumento della disoccupazione, oltre ad aggravare l'insicurezza di chi lavora nei settori informali e non protetti. Nei paesi scandinavi, che in Europa hanno raggiunto il grado più elevato di giustizia sociale, il mercato del lavoro è stato oggetto di riforme radicali. La sinistra non può più definirsi in contrapposizione alle riforme del welfare. Come ho già ricordato, lo stato sociale è nato come rete di sicurezza, che subentra quando si perde il posto di lavoro, si divorzia, ci si ammala o si invecchia. Alcune di queste funzioni permangono, ma oggi il welfare deve assumere sempre più le caratteristiche di un meccanismo di investimento sociale. In un'era di libertà individuali e di aspirazioni sempre maggiori, dobbiamo investire nelle persone per aiutarle ad aiutarsi da sé. Il sistema scolastico dev'essere riqualificato in maniera radicale per consentirci di affrontare un mondo sempre più competitivo; e occorre inoltre facilitare l'accesso a un'istruzione superiore di alta qualità, e aprire percorsi formativi anche alle fasce di età più avanzata. La sinistra non può più definirsi nei termini di una concezione classica delle libertà civili. Non è di destra ammettere che la criminalità e il disordine sociale rappresentano un grave problema per molti cittadini. Non è di destra sostenere che l'immigrazione dovrebbe essere controllata, o chiedere agli immigrati di farsi carico di una serie di responsabilità civili, ivi compreso l'obbligo di apprendere la lingua nazionale. Non è di destra cercare di dare risposte efficaci al terrorismo. Le nuove minacce terroristiche cui le società occidentali devono far fronte non sono paragonabili a quelle dei tempi delle Brigate rosse, o al terrorismo "locale" dell'IRA o dell'ETA. Il terrorismo di tipo nuovo è più globale, e potenzialmente di gran lunga più letale. Il diritto di sentirsi al sicuro dalla violenza terroristica è di per sé una libertà importante, che va ponderata rispetto alle altre. Infine, la sinistra ovviamente non può più definirsi in contrapposizione alla democrazia parlamentare. Il multipartitismo ha i suoi difetti, ma l'alternativa non può essere il cosiddetto "Stato del popolo". La rappresentanza popolare di stampo sovietico si è dimostrata tutt'altro che democratica. Oggi la sinistra deve dare la sua piena adesione al pluralismo, sia in campo politico che nel più ampio contesto sociale. Sono favorevole all'idea della creazione di un partito unificato della sinistra in Italia. Non se so in pratica ciò sarà possibile: dopo tutto, in passato la sinistra è stata ripetutamente affondata dalle scissioni e divisioni al suo interno. Ma credo che la sinistra post-socialista possa e debba essere più ecumenica di quanto tendesse a esserlo la sinistra radicale. E' necessario continuare a innovare in politica, per poter essere in grado di portare avanti i valori della sinistra in un mondo di massicce trasformazioni sociali. Ma l'innovazione politica può nascere solo dal libero scambio delle idee, non certo da un chiuso dogmatismo. (Traduzione di Elisabetta Horvat) (29 agosto 2006)