martedì, settembre 05, 2006

Il male oscuro del Nordest

L’OSSERVATORIO DEL NORDEST
Il male oscuro del Nordest (Gazzettino) di Ilvo Diamanti
Il Nordest e, in particolare, i veneti non hanno fiducia nello Stato. Magari non pensano che Roma, il governo, la burocrazia, siano il "kankaro d'Italia", come recita una tradizionale invettiva popolare, rilanciata dalla Liga Veneta oltre vent'anni fa, e riprodotta, allora, un po' ovunque.
Sulle strade, sui muri, sui cavalcavia. Tuttavia, l'Osservatorio sul Nordest di Demos conferma che questa immagine trova ancora largo credito, fra i cittadini. Appare, infatti, largamente condivisa. In Veneto e in Friuli Venezia Giulia. Soprattutto fra le casalinghe, i pensionati, fra i lavoratori autonomi, fra gli elettori di centrodestra, il distacco risulta ampio. Tuttavia, risulta sensibile anche fra gli altri settori della società. Ad esempio, più di metà degli elettori di centrosinistra ritengono che il Nordest dia molto più di quel che gli viene restituito, dallo Stato.
Meno del 10% dei cittadini, inoltre, senza alcuna differenza di orientamento politico, ritiene che, nell'ultimo anno, l'attenzione dello Stato nei confronti della loro Regione sia cresciuta. Nonostante le elezioni politiche abbiano determinato un cambio di maggioranza e di governo. Anche durante gli anni del secondo governo Berlusconi, d'altra parte, l'atteggiamento dei cittadini del Nordest esprimeva la sfiducia nei confronti delle istituzioni dello Stato e di Roma. Ciò significa che il retroterra politico conta, in questo orientamento, ma non in misura determinante. Il Veneto, in particolare, è ormai diventato la regione più a destra d'Italia. Tale si è confermata nelle consultazioni elettorali degli ultimi due anni. Ma, nonostante l'andamento contrastante del voto, il suo atteggiamento non è cambiato. E' insoddisfatta dello Stato oggi, che, politicamente, sta all'opposizione. Ma lo era anche ieri, quando stava al governo. Quando, cioè, c'era coerenza tra il colore politico del governo regionale e nazionale. La ragione di questa insoddisfazione, dunque, ha spiegazioni diverse. Più profonde.
La politica le riflette e le rende visibili, ma da sola non riesce a spiegare tanto distacco, tanto disincanto. Il filo che legava il Nordest allo Stato, infatti, si è spezzato da tempo. Venticinque anni fa. Fino ad allora quest'area era la più "governativa" d'Italia. La "zona bianca", la principale roccaforte che garantiva i consensi alla Democrazia Cristiana, il partito che ha governato il Paese sempre, nel corso della prima Repubblica. Poi, all'improvviso, quasi senza preavviso, alle elezioni del 1983 esplose il fenomeno della Liga Veneta. Che si affermò a Belluno, Treviso, Vicenza, Padova, Verona. Annunciando quella novità politica, l'autonomismo, la protesta anticentralista, che in seguito avrebbe contagiato tutte le altre regioni del Nord, ma soprattutto la Lombardia, caratterizzando non solo l'ultimo scorcio della prima Repubblica, ma anche quel che sarebbe venuto più tardi (seconda Repubblica? Transizione? Le ipotesi e le definizioni, al proposito, sono contrastanti). La "zona bianca", da allora, divenne "verde". Il consenso lasciò posto all'insofferenza e al malessere. Senza soluzione di continuità. Fino ad oggi. Cosa c'è dietro tanta insofferenza verso lo Stato? Una miscela di elementi diversi, uno dei quali, tuttavia, ci sembra particolarmente importante. Il mancato riconoscimento dei cambiamenti avvenuti, nell'economia e nella società. La terra dei poareti, la periferia dello sviluppo economico e del potere politico, l'area che sta a Nord di Roma e ad Est di Torino: è cambiata. E' diventata ricca, sviluppata, dinamica, globalizzata. Senza essere riconosciuta come tale. Vent'anni fa: era percepita da tutti, ancora, come il Sud del Nord. Senza, peraltro, goderne almeno i benefici. Nel senso che era considerata ancora una zona "in via di sviluppo" (alcuni dicevano: di "sotto-sviluppo"). Ma non per questo intercettava risorse pubbliche paragonabili a quelle che confluivano nel Mezzogiorno. Per cui la "protesta", espressa attraverso il voto alla Lega, aveva allora un duplice significato. Serviva a dichiarare, a gridare, che lo sviluppo si era spostato a Nordest. Ma il potere e le risorse no. Il potere: continuava a risiedere a Nordovest -quello economico- e a Roma -quello politico. Mentre le risorse pubbliche erano destinate soprattutto al Sud. Il malessere, la protesta: erano segnali, forti, che sottolineavano una estesa domanda di riconoscimento. Di riequilibrio. La periferia dello sviluppo era divenuta crocevia dell'economia europea e mondiale, soprattutto dopo la caduta del muro. Occorreva che lo Stato ne prendesse atto. Che gli italiani lo "accettassero". Occorreva, cioè, che l'immagine dell'uomo-del-nordest, mansueto e sottomesso, cambiasse. Occorreva, inoltre, che al Nordest venisse attribuito quel che gli spetta. Rappresentanza e risorse. Perché un'area sottoposta alla competizione globale deve essere competitiva, dal punto di vista territoriale: disporre di servizi, infrastrutture, peso politico. Da ciò la protesta, contro tutti i governi. Indipendentemente dal colore politico. La rivendicazione di autonomia, in-dipendenza, strade, strumenti e strutture per lo sviluppo e per l'innovazione. Una tendenza e una tensione che il tempo non ha ridimensionato. Anche perché i problemi del Nordest, invece di essere risolti, si sono amplificati.Certo, oggi il Nordest non è più sinonimo di dipendenza, arretratezza, marginalità. Al contrario: costituisce il caso esemplare dello sviluppo economico di piccola impresa. Espansivo, innovativo, propulsivo. Ed estensivo: capace, cioè, di coinvolgere una quota ampia della popolazione. Tuttavia, nel corso degli anni, il suo peso politico, in sede nazionale, non è cresciuto. Nei due ultimi governi non ha trovato posto neppure un ministro, di quest'area. Il crocevia dello sviluppo resta alla periferia del potere. Oggi, su 26 ministri, 9 sono "romani" e 4 vengono dal nordovest. Nessuno dal nordest. E' solo un segno, perché il "potere" non si misura solo in base al numero dei posti occupati nel governo. Tuttavia, questo indicatore qualcosa, comunque, significa. Significa, almeno, che "a Roma" la voce del Nordest continua a sentirsi poco. A echeggiare debole. Per questo i cittadini di quest'area gridano più forte di prima.Tuttavia, prendersela con gli altri è un'operazione terapeutica, ma non sempre efficace. Serve, talora, a mettere fra parentesi le proprie responsabilità. Il proprio male interiore. E, in qualche misura, il malessere del Nordest ha ragioni interne. L'esigenza di essere riconosciuti, riflette l'esigenza di "riconoscersi". Di guardarsi allo specchio e di scoprire che siamo cambiati profondamente. Che il nostro territorio è largamente saturo e deteriorato, che siamo invecchiati, che le nostre città non sono belle come un tempo, che i nostri legami sociali si sono usurati. Che siamo più ricchi ma anche più insoddisfatti. Che ci sentiamo "stranieri" in casa nostra, ma non solo e non tanto perché noi, popolo di emigranti, fino a ieri, oggi siamo diventati terra di immigrazione. Ma perché, spesso, i nostri vicini di casa sono "altri", di cui non conosciamo neppure il cognome. Gli "altri" imprenditori sono "concorrenti" da cui difendersi. Da tutto ciò nasce l'insoddisfazione che pervade la società del Nordest. La sua rabbia, che non trova quiete. Dalla frustrazione per non essere riconosciuta, in modo adeguato, dalla politica, dallo Stato. Dagli "altri". Dal malessere, che scava. Ogni volta che guardiamo intorno e dentro di noi. E stentiamo a riconoscerci.
Ilvo Diamanti

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